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"La Serenissima Repubblica"

a cura di Alessandro BELLOTTO

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La battaglia di Lepanto

    

La Battaglia di Lepanto 7 Ottobre 1571

     Fu così che la notte del 6 Ottobre dell’anno 1571, gli Ottomani uscirono dal porto di Lepanto fin troppo ottimisti e sicuri nella vittoria  e diressero le loro navi verso occidente, ignari del destino che li stava attendendo. Prima di tale decisione, peraltro imposta dal sultano di Costantinopoli, Salim II°, essi tennero consiglio dentro la fortezza di quella città, dove sembra che tra i comandanti ve ne fossero alcuni contrari a incrociare battaglia con la flotta cristiana, sostenendo che quella attuale fosse la più potente mai apparsa prima d’ora e che, tutto sommato, forse era meglio rimanere a ridosso delle coste, protetti dalle batterie di terra. Mehmet Alì Pascià, comandante supremo della flotta Turca, era un uomo prudente quanto esperto, egli però era partito da Negroponte con l’ordine preciso di intercettare l’armata cristiana e di distruggerla perciò, non aveva scelta, per di più, un loro alleato, il corsaro algerino, Uluch Alì, aveva asserito senza mezzi termini che se fossero rimasti a Lepanto per proteggere le donne e bambini, sarebbero stati tacciati di codardia.  

  E’ pur vero che la loro flotta contava 274 tra galee e galeotte e più di 88.000 uomini, tra cui circa 5.000 temutissimi giannizzeri, ma era pur vero che anche la flotta cristiana era consistente decisa e ben armata e, senza meno, gli Ottomani la sottovalutarono.

    Intanto la flotta cristiana della Santa Lega, dopo avere lasciato Corfù, navigava in formazione rastrellando le acque del basso Ionio; si insinuò tra le rive di Cefalonia e l’isola di Ulisse, poi volse la prora verso nord-est descrivendo una parabola in direzione del promontorio di Marathia sulla costa occidentale dell’Epiro e ridiscese ancora verso sud defilandosi tra le isole Cursolari. All’alba del 7 Ottobre essa si trovava fra l’isola di Oxia e l’estrema punta della Scropha,  all’estremo lembo della costa che si affaccia all’imbocco del golfo di Patrasso, che da quel punto si estende verso est sino alla fortezza di Morea sita a guardia dello stretto dei piccoli Dardanelli, proprio all’imbocco dello golfo di Lepanto (golfo di Corinto). Quel fatidico mattino, al primo diradarsi delle brume autunnali, le navi dell’alleanza avanzavano lente allo scandire ritmico dei remi sotto la sferza di un vento fresco e contrario ed ecco, finalmente, che agli occhi attenti dei marinai, lontane all’orizzonte, apparvero le prime vele degli infedeli. A quella vista don Giovanni non perse tempo e subito impartì l’ordine di disporre le proprie forze secondo il piano minuziosamente messo a punto a Messina.

     La flotta venne schierata su un unico fronte che nel suo insieme si snodava per diverse miglia, essa era suddivisa in quattro squadre, ciascuna delle quali era composta da navi miste: veneziane, spagnole, genovesi e pontificie, questo per evitare che qualcuno, preso dal panico, proprio nel mezzo della battaglia potesse ritirarsi dalla mischia. La squadra centrale era composta da 64 galee, tra cui si allineavano le ammiraglie di don Giovanni d’Austria, subito fiancheggiata da quella di Marcantonio Colonna alla sua destra e di Sebastiano Venier a manca. L’intera ala sinistra era posta sotto il comando del provveditore veneziano Agostino Barbarigo e comprendeva 53 galee, tra le quali ne figuravano alcune con scafi più leggeri e dotate quindi di minor pescaggio, perciò più manovrabili, se dal caso avessero dovuto contrastare quelle turche, anch’esse dotate di scafi leggeri, che attraverso le acque basse sotto costa avessero avuto l’intenzione di aggirare la flotta cristiana. L’ala destra comandata dal grandammiraglio Gianandrea Doria contava su 54 galee. Nella retroguardia, al centro, erano raggruppate 38 galee al comando di don Alvaro de Baràn e don Giovanni de Cardona ed in fine, le sei galeazze veneziane erano distribuite a due alla testa di ciascun schieramento. Queste ultime erano state poste in avanguardia per poter contrastare al meglio l’artiglieria nemica. Fra le tante cose, è doveroso quanto significativo sottolineare il fatto che i comandanti nelle due galeazze dello schieramento di sinistra, erano in qualche modo imparentati con il povero Marcantonio Bragadin, barbaramente torturato e ucciso a Cipro dai Turchi, perciò tutti coloro erano ben desiderosi di battersi. Don Giovanni aveva anche disposto, e in questo era stato categorico, che tutte le galee dello schieramento dovevano allinearsi a pacchetto molto serrato, cioè a non più di 15 metri l’una dall’altra, in modo da non dare al nemico nessuna possibilità di inserimento che potesse in qualche modo scompaginare il loro fronte. Purtroppo lo schieramento di destra dovendo compiere un tragitto più lungo per raggiungere la sua postazione prestabilita era in ritardo, e quando la battaglia iniziò le navi di Gianandrea Doria stavano ancora manovrando, perciò le due galeazze non poterono essere rimorchiate in tempo utile alla testa dello stesso al pari delle altre, quindi non poterono fornire il giusto appoggio. Poco male, se si pensa che in questo frangente, il Doria, dovette manovrare il suo schieramento allargandosi verso sud per contrastare al meglio un tentativo di accerchiamento da parte dell’ala sinistra turca, o almeno così sembrava a detta dello stesso Doria.

     La flotta navale Turca, quasi a similitudine di quella cristiana, era allineata di fronte ma era disposta a semicerchio, anch’essa suddivisa in tre settori e una riserva inseriva alle spalle dello schieramento centrale. L’ala di destra, schierata di fronte al veneziano era comandata da Muhammad Saulak (detto anche Maometto Scirocco) governatore dell’Egitto con 56 galee; all’ala sinistra di fronte al genovese vi era, Uluch Alì detto Uccialli, corsaro algerino ma di origini calabre, abiuro, abbracciò la dottrina di Maometto e divenne generale del mare, ed ora comandava lo schieramento con 63 galee; al centro era schierato Mehmet Alì Pascià comandante supremo della flotta con 96 galee; la riserva era comandata da Amurat Dragut con 10 galee e 21 galeotte. Al suo attivo la flotta ottomana poteva contare su 750 cannoni in luogo di quella cristiana che ne possedeva ben 1815.

     Alì Pascià, a bordo della Sultana, ammiraglia della flotta, per l’occasione aveva issato sull’albero della sua galea un vessillo di color verde su cui era inciso a caratteri d’oro il nome di Allah per 28.900 volte.

     Prima che la battaglia avesse inizio, don Giovanni d’Austria, fintanto che le flotte erano ancora distanziate tra loro, salì a bordo di una fregata leggera e passò in rassegna tutto il suo schieramento brandendo con la mano destra un crocefisso, e per ciascun gruppo ebbe parole di conforto e di sprono… agli Spagnoli disse: “ figlioli, siamo qui per vincere o morire, come il cielo vorrà. Non permettiamo che l’empio nemico ci chieda dov’è il nostro Dio”; ai veneziani parlò di riscatto e di vendetta; a tutti gli altri di esprimere al meglio le loro forze, ricordando la natura divina della loro impresa e che il Crocifisso era il loro vero comandante. Passando innanzi all’ammiraglia di Venier gli rivolse alcune parole cortesi e il vecchio condottiero gli rispose con garbo e pace fu fatta.

     Tutto era pronto per quel giorno di vendetta e quando le schiere furono a tiro, don Giovanni issò lo stendardo della Lega con l’immagine del Redentore crocefisso, ciascun comandante cristiano ammainò le proprie bandiere e su ogni legno fu innalzata una croce. Tutti i combattenti ricevettero la benedizione… ma a questo punto accadde un fatto assai strano, quasi a sottolineare una volontà divina per la battaglia che stava per cominciare: il vento improvvisamente cambiò direzione, le vele dei cristiani si misero al vento mentre le vele turche si afflosciarono. Un segno divino o una fatalità. I venti spesso cambiano direzione senza che vi sia una logica ragione, eppure se questo accadde, fu pur sempre una concausa inspiegabile che si delineò a favore dei cristiani.

     Iniziò così l’ultima grande battaglia fra navi a remi che la storia ricordi, l’ultimo grande scontro tra galee, uno scontro sanguinoso e violento, dove gli eroismi e gli impulsi primordiali dell’uomo si affrontarono ciascuno nel nome del proprio dio; esso infatti non fu solamente  uno scontro politico ed etnico, fu soprattutto uno scontro fra religioni il cui odio non permetteva a nessuno di avere pietà, ciascuno considerava sacra la crudeltà della propria irruenza e della propria supremazia.

     Sulle navi della Santa Lega tutti i forzati ai remi furono liberati dalle catene e armati per la battaglia con la promessa della libertà, mentre agli schiavi musulmani furono rinforzate le manette che li costringeva al remo. Nell’attesa, tutto era silenzio e tutti erano immobili, ciascuno dentro la propria anima attendeva attonito lo scontro, mentre all’avvicinarsi delle navi nemiche si udiva sempre più forte un frastuono di tamburi e grida di battaglia.

    Le due flotte erano sempre più vicine. Ora: anche i musulmani erano in silenzio e pregavano Allah; don Giovanni racchiuso nella sua splendente armatura cadde in ginocchio implorando la benedizione divina sull’impresa e quel gesto fu imitato da tutti. Ogni uomo non intento all’uso dei remi si inginocchiò: gli archibugieri spagnoli, i cavalieri di San Giovanni, i marinai genovesi, gli spadaccini veneziani, i fanti napoletani, i picchieri siciliani, i cavalieri di Malta… tutti pregavano in silenzio,  gli unici suoni che si udivano sommessi erano gli scricchiolii dei remi e lo sciabordio dell’acqua che si infrangeva contro le prue.

     Alle 10.30 circa del mattino quando le prime cannonate delle galeazze cominciarono a bersagliare il nemico, ciascun combattente si destò dai propri intenti di preghiera...

nell’ardore di quel momento ogni uomo, oltre che in Dio, pensava alla propria invulnerabilità ed al fatto che forse, il dardo che lo avrebbe trafitto o la spada che con ferocia gli avrebbe inferto un fendente mortale, non fossero state ancora costruite.

     Fu dato fiato alle trombe e le bande suonarono. Ora i remi dei Turchi affondavano nell’acqua con furia mentre le ciurme danzavano e urlavano al suono dei tamburi e dei flauti, così quel bailamme di turbanti di piume e di costumi colorati compenetrati nel loro folcrore, baldanzosamente si avvicinavano per dare battaglia. I cristiani osservavano attoniti quell’orda avanzare semiconfusa nel fumo e nel fragore delle cannonate sparate dalle galeazze che peraltro, gettarono subito un primo scompenso uccidendo parecchi infedeli.

     Sostanzialmente lo scontro si articolò in fasi successive: i primi a venire a contatto furono le galere di Agostino Barbarico che si opponevano all’avanzata dell’ala destra Turca comandata da Muhammad Saulak, che da subito tentò di incunearsi tra le navi veneziane e la terra ferma nel tentativo di aggirare Barbarico, ma quest’ultimo accortosi della tattica fece in tempo a manovrare con altrettanta abilità le sue galee rovesciando il fronte attaccando le navi turche sul fianco costringendole sotto costa a ridosso degli scogli in un groviglio di remi spezzati. Lo scontro si fece subito cruento e la galea di Barbarico fu accerchiata da più d’una delle galee nemiche, ma i veneziani combatterono con tale accanimento che ebbero la meglio, purtroppo durante l’infuriare della mischia Barbarico alzò imprudentemente la visiera dell’elmo per farsi udire dai suoi uomini e una freccia lo colpì all’occhio sinistro e fu costretto a lasciare il comando al suo alterego Federico Nani. Barbarico fu portato morente sotto coperta. Intanto le galeazze al comando di Ambrogio Bragadin continuavano a cannoneggiare le navi turche procurando enormi squarci sulle carene e fintanto che gli archibugieri continuavano a fare strage di nemici, gli assalti dei cristiani armati di picche si susseguivano a ondate. Finalmente, dopo alterne vicende e sanguinosi assalti Muhammad Saulak fu catturato e ucciso, il suo schieramento fu progressivamente accerchiato e decimato. Fu una prima vittoria. Al centro intanto, le galee di entrambe le fazioni si scagliarono le une contro le altre, la Reale di don Giovanni e la Sultana di Alì Pascià si speronarono a vicenda… e subito i fanti di Sardegna si gettarono all’arrembaggio ingaggiando un cruento corpo a corpo con i giannizzeri turchi; su tutto il fronte centrale le navi così ancorate l’una all’altra si trasformarono quasi in un unico campo di battaglia. Per quasi due ore sui ponti delle ammiraglie infuriò uno scontro sanguinoso e violento accompagnato dal rullo di tamburi. Da una parte le schiere multicolori e piumate dei giannizzeri e dall’altra gli elmi e le corazze luccicanti degli spagnoli, tutto d’improvviso si trasformò in una mischia di corpi, di braccia, di uomini intenti a battersi: con le mazze, le spade, coi pugni, con le picche, in un continuo sibilare di frecce di spari e nell’incessante furore di grida, di arrembaggi, di lamenti, di sangue. In quella pazzia collettiva si calpestavano i morti i feriti, e di continuo le fiumane umane si riversavano sui ponti, senza sosta, senza ragione, e il tumulto si trasformò in un morsa mortale per lutti.

     Sul fianco sinistro dell’ammiraglia, anche la galea di Venier era avvinghiata nella mischia della battaglia e l’indomito vegliando, ritto sul ponte, sparava sui turchi con un trombone che un servitore gli caricava in continuazione e quando la sua nave fu invasa dai Turchi, fu sempre lui a condurre il contrattacco e, anche se ferito ad una gamba, continuò a battersi con ardimento.

     Sotto il continuo incalzare degli ottomani, alcune navi cristiane caddero prede dei famelici giannizzeri, ma a loro volta essi cadevano falciati sotto i colpi degli archibugieri spagnoli. Oramai un caos inimmaginabile avviluppato tra il fumo e le grida si andava snodando ovunque in una babele collettiva. Le bandiere erano ridotte a brandelli e sui ponti, intrisi di sangue i cadaveri si ammucchiavano. Si combatteva ovunque, in ogni dove, nell’acqua, sui pennoni. Le fusciacche appariscenti dei turchi si confondevano ovunque in uno strano balletto di braccia tra corazze e spade e di continuo si buttavano nella mischia, a getto continuo, brandendo le scimitarre sotto una pioggia incessante di frecce.  Erano assalti spietati e poco per volta le squadre di abbordaggio cristiane cominciarono a risentire dei continui combattimenti all’arma bianca anzi, ad un certo punto sembrò che gli Ottomani dovessero avere la meglio, ma ancora una volta i cristiani in un sussulto d’orgoglio sferrarono un contrattacco armeggiando spadoni a due mani e sparando raffiche con gli archibugi. Oramai le navi che colavano a picco riempivano il mare di un ribollire di cadaveri di feriti e i rematori incatenati ai remi affogavano a migliaia.  Anche don Giovanni fu ferito ad una gamba e fu portato sotto coperta ma continuò ugualmente a impartire ordini. Molti furono gli atti di valore e molti di coloro che li compirono perirono in un lago di sangue, anche i frati e i monaci combatterono con ardimento, e non solo nel nome del signore, ma anche e soprattutto per sopravvivere il quel marasma umano.

     Un riscontro assai curioso è rappresentato dal fatto che a bordo della Reale si scoprì che uno degli archibugieri era una donna, una certa Maria la bailadora (la danzatrice), imbarcatasi clandestinamente, e per le prodezze dimostrate le fu poi concesso di rimanere nel reggimento.

     Le perdite erano ingenti da ambo le parti… d’improvviso un colpo di moschetto colpì a morte Alì Pascià che cadde di sotto tra i rematori cristiani che subito gli mozzarono la testa e la issarono su una picca bene in vista. La Sultana si arrese e lo sgomento si impadronì dei Turchi, ciò creò un notevole scompiglio e molti cominciarono a fuggire ma furono subito braccati… questo fu uno degli scontri più cruenti di tutta la battaglia.

     Intanto nell’ala destra dello schieramento cristiano posto sotto le direttiva di Gaianandrea Doria, dove si addensava il maggiore concentramento degli avversari Turchi, non vi era battaglia. Tutto sembrava tacere. Entrambi i contendenti nel tentativo ciascuno di aggirare l’altro si erano spinti verso sud e ancora non si era acceso il combattimento. Questo fatto nella storia, sembra gettare un certo discredito sulle responsabilità del Doria, come a sottolineare un atteggiamento poco belligerante, come se egli avesse voluto sottrarsi all’evento, sospinto da altre volontà e/o direttamente pilotate da Filippo II° che avrebbe preferito dirottare le forze alleate verso Tripoli piuttosto che a Oriente. Non ci è dato però di sapere se ciò fosse il vero oppure no, quello che la storia riporta sono solamente i fatti come si svolsero… ad un certo punto a giudizio di alcuni, il Doria, si allontanò troppo dal centro dello schieramento, aprendo così un pericoloso varco, ciò permise ad Uluch Alì, svelto nella manovra, di incunearsi verso il centro per poter prendere alle spalle la flotta cristiana; fu così che alcune navi alla sinistra del Doria ritornarono indietro nel tentativo di colmare quel vuoto e si trovarono ora isolate. Uluch Alì,  nel cambiamento di rotta si trovò di fronte questo sparuto gruppo di galee alleate tra cui la Capitana, ammiraglia dei cavalieri di Malta, al comando di Pietro Giustiniani, la quale fu circondata da sette gelee saracene e così tutta la piccola squadra fu assalita da ogni parte e dovette soccombere. L’algerino riuscì a catturare il comandante della Capitana Giustiniani e a impossessarsi dello stendardo dei maltesi. Fortunatamente dalla riserva, l’ammiraglio di Santa Cruz, accorse in loro aiuto con le galee di don Giovanni Cardona che pur se inferiori di numero riuscirono a riconquistare la Capitana e sventare il tentativo di accerchiamento da parte di Uluch Alì. Nel frattempo anche il centro si era volto a dare manforte: don Giovanni Venier e Colonna si unirono alla lotta e nacque una nuova mischia, intanto il Doria ritornato indietro si unì anch’esso nella battaglia. Uluch Alì, vide la mal parata e capì che la battaglia era perduta e non volendo sacrificare tutte le sue navi, con una mossa astuta si allontanò furbescamente dalla mischia portando con se la bandiera dei cavalieri di san Giovanni. Da prima si nascose dietro alcune isole dei dintorni riparando poi su Costantinopoli.

Egli fu il solo dei comandanti Ottomani a sopravvivere alla battaglia e morì all’età di 90 anni.

     Erano circa le cinque della sera quando il tumulto cessò, la flotta turca era stata annientata e lode fu concessa a Dio e mentre il crepuscolo volgeva all’orizzonte si raccolsero i feriti e si assicurarono le galee catturate. Ora quello specchio di mare non era che una desolazione di relitti, di cadaveri, di remi spezzati, di turbanti, di sangue, e qui: soldati marinai e galeotti si diedero al saccheggio sino al calare della notte, e il bottino di oro argento e preziosi non fu da poco. Nel mare di Lepanto era calata la notte col suo silenzio divino, e ancora una volta si era conclusa una pagina di storia, una storia che per quanto poco cambiò il corso degli eventi. Quando la notizia della vittoria arrivò a Venezia, il Senato decreto che:

 “no virus, no arma, no duces, sed Maria rosarii, victores nos fecit”

 “non le armi, non i condottieri, ma la madonna del rosario, ci ha fatto vincitori”.