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"La Serenissima Repubblica"

a cura di Alessandro BELLOTTO

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In viaggio verso Oriente

 

     Finalmente la flotta cristiana salpò da Messina e lasciato l’estremo lembo della Sicilia si diresse ad oriente. I lunghi giorni dell’adunanza sembravano oramai più lontani che mai. Ora,  venivano i giorni delle speranze e, nel bene o nel male, quella stessa flotta sarebbe ritornata in quei lidi solamente dopo aver assolto a ciò per cui era stata voluta. Sia nella vittoria o nella sconfitta, il destino di migliaia di uomini si sarebbe consumato nelle acque di quel mare che, per antonomasia, apparteneva alle rotte della cultura, dei commerci, dei contatti universali… si dice che gli scontri fra civiltà hanno sempre portato a nuove consapevolezze e/o a nuove conoscenze, ma nessuno mai ha tentato di spiegare perché , dietro a tutto questo, vi sia sempre la cupidigia dell’uomo.

     Ad ogni buon conto, quasi a sentenziare le parole del comandante genovese, le condizioni del mare all’avvio della lunga fila di navi non fu proprio nelle condizioni migliori giacché, solo tre giorni dopo essere salpata, per sfuggire ad una furibonda tempesta sospinta dal vento di tramontana, la flotta fu costretta ad una sosta a ridosso del promontorio di Capo delle Colonne sul litorale calabro, proprio all’imboccatura del golfo di Taranto. Ivi accostate, le gerarchie alleate ricevettero una segnalazione secondo cui la flotta Turca si stava disperdendo parte verso il sud del Peloponneso e parte verso oriente, proprio per non imbattersi sulla rotta cristiana, ed in fine: si venne anche sapere che Famagosta un mese prima era caduta nelle mani degli infedeli.

     Per dieci mesi, in quella città, un contingente di soli 10.000 uomini guidati dal valoroso Marcantonio Bragadin, avevano tenuto testa ad una orda di 250.000 Turchi sospinti alla conquista da Alì Pascià. Quello che maggiormente rattristò e soprattutto sdegnò gli animi di tutti, fu il sapere che Bragadin, oramai allo stremo delle forze e costretto dalla fame dalle malattie e con la guarnigione ridotta ad un manipoli di uomini, negoziò la resa confidando nella onorevole sincerità dei conquistatori, nel mentre, quei barbari, violarono i patti. Da prima mozzarono il naso e le orecchie al comandante e imprigionarono il resto dei soldati e, l’indomani, non ancora contenti lo scuoiarono vivo. L’unica scusa che più tardi addussero per questo atto di assoluta barbarie fu l’insignificante bugia che quest’ultimo aveva fatto uccidere i Turchi catturati durante i dieci mesi di assedio.

     I marinai veneziani conoscevano bene la tramontana che per gran parte dell’inverno imperversava l’Adriatico, e per loro esperienza dissero che sarebbe durata tre giorni, e così fu. In quella interminabile attesa, quella moltitudine di uomini, indolenzita dal freddo e impotente di fronte all’alterigia del mare, ciascuna a bordo della propria nave contava i minuti in un tedio di corpi quasi addossati gli uni agli altri… i rematori semi sdraiati nel loro limbo accanto ai remi, i soldati seduti scomodamente sui loro fardelli, i marinai appollaiati alla meglio sul castello di prora e gli ufficiali e i comandanti anch’essi scomodamente ammucchiati su strette panche distribuite sul ballatoio di poppa; a bordo di una galera non vi erano anfratti in cui ripararsi, non vi era intimità, non vi erano cuccette e non vi erano coperture, solamente il cielo: bello e lucente o tenebroso e freddo. A cosa mai avranno pensato quelle moltitudini di menti in quella tediosa attesa dove la vita stessa sembrava essersi presa una pausa, mentre instancabilmente le guardie vegliavano i forzati della fatica incatenati ai remi.

     La notte del Sabato il vento cadde e il mare si placò. Don Giovanni non attese nemmeno l’alba e dette l’ordine di riprendere il mare. Già all’albeggiare del nuovo giorno erano lontani e la sera della Domenica, il giorno 23 di Settembre, erano oramai giunti all’altezza di Santa Maria di Leuca così da essere in vista di Corfù il giorno di Lunedì. Questa era la prima meta del viaggio e qui la flotta si riposò, ma le amarezze non mancarono di sorprendere i nuovi arrivati, perché in quei luoghi si scoprì che una ventina di giorni avanti i Turchi avevano fatto razzie sui villaggi con inaudita violenza, distruggendo le case e soprattutto profanando le chiese cristiane. Una recita popolare sentenziava quanto l’occhio poteva osservare: “dove passa il Turco non cresce più l’erba”

     Ma durante quella sosta, i capitani della Lega vennero anche a sapere che la flotta del sultano non si era dispersa, ma era diretta nel golfo di Lepanto, considerato da essi un luogo sicuro.

     Intanto dopo aver effettuato gli appositi rifornimenti di acqua, dalla guarnigione di Corfù i veneziani imbarcarono altri 4.000 soldati che furono opportunamente disseminati a bordo delle proprie navi così da colmare i posti vacanti dopodiché, nei due giorni successivi, tutta la flotta si esercitò con i moschetti e altri sistemi d’arma, alla fine, don Giovanni in persona passò in rassegna tutte le navi, osservando con molto scrupolo ogni particolare.

     Tutto oramai era pronto, tutti oramai percepivano l’ardore della futura battaglia, sospinti più che mai dall’assoluta volontà del giovane condottiero, soggiogato anch’egli da impeti guerreschi e sorretto dalla divina provvidenza… ma ancora una volta, tutto questo, rischiava di andare a monte. Prima della partenza infatti, don Giovanni volle imbarcare alcuni contingenti spagnoli a bordo delle navi veneziane per rifondarne le fila, data la scarsità di uomini con cui Venezia era arrivata all’adunanza, ma gli antichi dissapori tra spagnoli e veneziani finirono per trasformare un banale incidente in una rissa furibonda. Gli spagnoli non intendevano ragione e si ribellarono al comandante veneziano continuarono a muovere insulti e uccidendo alcuni uomini dell’equipaggio. Subito l’ufficiale di bordo ne informò il Venier che ordinò l’immediato arresto dei rivoltosi, ma questi non si arresero continuando a dare di pugno, allorché il canuto comandante fu colto dall’ira e ordinò di abbordare la nave e catturare i ribelli. Subito arrivò sottobordo un legno spagnolo e un ufficiale urlò al Venier che avrebbe provveduto lui a sedare la lite. Il Venier si infuriò ancora di più, ben pensando che a bordo delle sue navi lui era il solo che poteva dare ordini e di rimando gli rispose: “per il sangue di Cristo! Non osar nulla se non vuoi che faccia colare a picco te e la tua nave con tutti i tuoi soldati. Riporterò questi cani alla ragione senza la tua assistenza”. Ciò detto diede ordine agli archibugieri di abbordare la nave e di catturare i ribelli. Tra i più scatenati vi era un certo Muzio, il loro capo, che subito fu portato alla presenza di Venier che lo fissò qualche istante negli occhi e poi disse: “impiccatelo”. Ci sono altri colpevoli gli disse il capitano: un caporale e due soldati.  “Impiccate anche loro”. Naturalmente l’ufficiale spagnolo riferì a don Giovanni sull’accaduto. Quest’ultimo si fece scuro in volto e con molta indignazione proruppe dicendo: “chi ha potuto autorizzare una esecuzione senza il mio permesso? Come ha osato il generale della Repubblica di San Marco fare un affronto così grave alla mia autorità? Forse che lui ha ricevuto un tale potere dal re di Spagna o da Sua Santità?  Perdio, non tollererò più a lungo l’arroganza di questo vecchio idiota che Venezia ha messo a capo delle sue galee”.  Ci vollero tutte le diplomazie distribuite tra il Colonna e Barbarico per condurre alla calma il giovane condottiero, oltretutto per amore dell’unità della flotta. “D’accordo, perdonerò Venier, ma non voglio che compaia più al mio cospetto”, poi voltosi ai capitani: “alle navi signori, e volgiamo le prore al mare”.