"La Serenissima Repubblica" a cura di Alessandro BELLOTTO |
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L'adunanza di Messina |
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Fra gli approdi capaci di contenere nelle sue insenature tanto naviglio quanto era quello appartenente alla flotta dell’alleanza e che non fosse così lontano dalle potenziali rotte dei Turchi, fra i tanti, fu scelto il porto di Messina. Un punto geografico particolarmente idoneo per il raggruppamento di una simile armata, poiché si adagiava quasi al centro del Mediterraneo non lontano da tutti e abbastanza protetto dagli sguardi del nemico. I primi legni ad attraccare nell’estremo lembo di Nord-Est della terra di Sicilia furono i veneziani posti sotto il comando di Sebastiano Venier, una figura piuttosto singolare, nominato “capitano generale da mar”, praticamente comandava tutto ciò che vi era di veneziano nella Santa Lega. Venier era uomo dal carattere risoluto con negli occhi l’imperio di chi è pervaso da grande energia, dall’aspetto vigoroso e la voce stentorea di chi ha la fermezza del comando, nonostante i suoi 75 anni, l’unico segno di vecchiezza era la folta chioma bianca che si contrapponeva alle vampate sanguigne sulle guance.
Sebastiano Venier "Capitano generale da mar" A seguito giunse la piccola flotta romana comandata da Marcantonio Colonna, luogotenente in comando, personaggio dall’aria meditabonda, dava l’idea di essere un uomo triste e colmo di reconditi pensieri. I pochi capelli incorniciavano il volto magro dal profilo sfuggente i cui profondi occhi, attentamente concentrati, erano apostrofati da folte sopracciglia, la bocca sottile semisommersa da lunghi baffi, delineati alla tartara, gli pendevano sul mento stretto poco avvezzo al sorriso seppure, tutto fosse sotto l’egemonico controllo di chi conosce la vita nelle sue molteplici sfaccettature.
Marcantonio Colonna Ammiraglio pontificio Ma in quella affascinante terra siciliana più i giorni passavano e più i fumi delle ansie sobillavano l’animo dei due condottieri, che nell’impaziente attesa della restante forza Spagnola, vedevano sfumare sempre più l’opportunità di sferrare un attacco prima che la stagione volgesse al peggio. Il Venier era sempre più tenebroso e Marcantonio, dal canto suo, cercava di celare il più possibile le sue ire. Ma quello che più faceva trasalire l’animo dei due capitani era il fatto che dovevano, non per loro scelta, sottintendere ai comodi di quel giovane ragazzo che avrebbe dovuto condurli in battaglia e del quale bisognava attendere le sue opportune comodità. E finalmente, sul finire di Agosto, il venticinquenne don Giovanni d’Austria arrivò per assumere il comando generale di tutta l’armata cristiana e gestirne le sorti. Dall’alto della sua ammiraglia tutta imbandierata, a piè soffermo sul ponte, elegante nella figura e attorniato da cavalieri, il giovane ammiraglio osservava a mo’ di saluto tutti i principi e gli ufficiali schierati in suo onore, e tutti, osservavano l’uomo dai profondi occhi azzurri e dall’aria sorridente, passare in rassegna i reparti infondendo loro sicurezza con la sua affabile comunicativa, mentre le artiglieri sparavano le salve di saluto. Il suo volto di straordinaria bellezza rimarcava le avvenenze della madre, ma portava il cipiglio degli Asburgo, tuttavia vi si leggeva uno spirito di grande determinazione.
don Giovanni d'Austria Comandante supremo della Santa Lega Subito il giorno seguente al suo arrivo don Giovanni convocò l’assemblea della Lega a bordo della sua Reale nave, per fare le debite conoscenze e per sentire da viva voce tutte le singole opinioni: era un venerdì del 24 di Agosto. Inutile sottolineare il fatto che: veneziani e romani erano per agire subito, mentre gli spagnoli erano per il temporeggiamento, ancora una volta le vecchie ambiguità degli spagnoli e i timori che la stagione fosse oramai giunta al termine utile, ritornavano in auge. Da subito don Giovanni si informò sulla reale consistenza delle forze già presenti all’adunanza e di quelle che di lì a giorni, si sarebbero aggiunte sotto il suo comando e tra le quali: la squadra del marchese di Santacroce già in navigazione da Napoli e quella di don Giovanni di Cardona proveniente da Palermo, e ancora le 3 galere del Duca di Savoia e quelle dei cavalieri di Malta, alle quali avrebbero fatto seguito, il 2 Settembre, le altre 60 galee veneziane provenienti da Candia sotto il comando dei provveditori Quercini e Dal Canal, e la sera dello stesso giorno, le 11 galere provenienti da Genova con Gianandrea Doria. La rada di Messina sarebbe stata così gremita di navigli da non riuscire a vederne il mare ma solamente vele e remi o un pullulare di altre barche nell’andirivieni tra le rive. Al grande convegno il Venier non seppe trattenere il suo impeto e subito partì all’attacco adducendo le sue ragioni e di partire senza indugio alla ricerca del nemico poiché, tali erano le loro forze, che per i Turchi non poteva esserci via di scampo. Ma le controversie sul da farsi erano ancora molte, tra cui, conoscere l’esatta entità della forza ottomana e, soprattutto, il sapere dove quest’ultima si fosse celata. A detta delle notizie raccolte dallo stesso don Giovanni, vi era chi deponesse in quelle forze qualcosa di invincibile e di terribile, altri, le descrivevano come male armate con poche artiglierie e scarsità di soldati. Nessuno in realtà poteva portare sul tavolo delle decisioni qualcosa di ottimale e concreto e/o qualche conoscenza diretta per aver visto o sentito di persona. Don Giovanni, consapevole di ciò, dopo aver assistito alle discussioni dei presenti fece cenno al silenzio e sentenziò: “nessuna impresa umana è sicura, meno che meno l’esito delle battaglia”. Venne allora posta sul tavolo una proposta di inviare quanto prima anzi, lo stesso giorno, alcuni legni in esplorazione onde reperire notizie fresche. Furono perciò incaricati della delicata impresa due fiduciari: Gil d’Andrade spagnolo, e Giovanni Benedetti veneziano. Più che alla prudenza, i tentennamenti, dopo tutto fanno parte della natura umana ma non nella logica delle cose. Rischiare una battaglia significa anche rischiare una sconfitta. Nelle scelte di contrapporsi al nemico prendendolo di fronte o aggirando i suoi fianchi, si trattava solo di decidere e di decidere per il meglio, e aspettare, significava dargli tempo per attivarsi al meglio delle sue forze. Marcantonio Colonna questo lo sapeva bene, come sapeva che se voleva cogliere nel segno, doveva solleticare don Giovanni proprio là dove i sentimenti fanno leva sulle debolezze e/o sulle virtù dell’uomo, stuzzicandone l’orgoglio. Chiese allora un colloquio privato con l’Arciduca e, da solo a solo senza mezzi termini giocò la sua carta, e con giusto cipiglio rivelò il suo pensiero: “poiché tutti hanno orecchie per sentire e testa per capire, qui si dubita del vostro coraggio, si mormora che abbiate paura. Ecco io vengo a dirvelo in faccia”. Senza dubbio il sentiero intrapreso da Marcantonio era giusto. Per incanto sembrò che tutti gli umori e le ambiguità politiche ed etniche e nazionalistiche si fossero sanate, mai come in quel momento gli orizzonti si aprirono verso la storia. Le parole di Marcantonio Colonna fecero scattare di rabbia il giovane condottiero per l’indignazione subita ma suscitarono anche la consapevolezza della loro missione. Finalmente fecero ritorno gli esploratori dai quali si seppe che la flotta Turca si stava dirigendo verso il golfo di Lepanto e che Alì Pascià la comandava di persona. Ma dalle spiegazioni degli emissari, subito emersero due profili di pensiero: Gil d’Andrade, concerneva le sue informazioni descrivendo la flotta troppo forte e assolutamente padrona dei mari, ma dalle sue disquisizioni ciò che ne emerse era più quello che egli pensava piuttosto che quello che aveva realmente visto. Quello che descrisse il comandante Benedetti fu tutt’altro, egli seppe che i Turchi, nel frattempo, avevano fatto alcune scorrerie sull’isola di Corfù saccheggiando alcuni villaggi lungo le riva, ma aveva anche saputo da un prigioniero fuggito dalle loro grinfie, che la consistenza vera e propria si articolava su 150 galee valenti e combattive, ma che la rimanenza erano tutte unità minori male armate e con molti malati a bordo e, per di più, scarseggiava nelle artiglierie. Ma a chi dare affidamento? Intanto il giorno 8 di Settembre fu fatta una rassegna generale di tutte le forze cristiane e bisogna pur dire che la flotta era di formidabili dimensioni e anche molto efficiente. Nel suo insieme essa era costituita da 203 galere, 6 galeazze, 50 fregate e una trentina di altre unità per gli approvvigionamenti e cariche di soldati. Le artiglierie ammontavano nel complessivo a 1.815 bocche da fuoco e tutto l’insieme eterogeneo degli uomini era di composto da 84.420 unità suddivise tra: 28.000 soldati, 12.920 marinai e 43.500 rematori. Era un deterrente navale davvero imponente che di sicuro intimoriva chiunque solo a vederlo. Il giorno 10 di Settembre, a bordo dell’ammiraglia, venne tenuto un gran consiglio, e ancora una volta emersero le titubanze di alcuni, primo fra tutti Gianandrea Doria, nipote del grande Andrea Doria e ritenuto da tutti un condottiero di comprovata abilità. Egli elencò pregi e difetti dell’armata, parlò in difesa dei legittimi diritti della cristianità e dell’Europa stessa nel compiere quell’impresa, parlò della potente flotta Turca, che egli per altro stimava essere doppia di quella cristiana, parlò delle difficoltà incontrate nel radunare una simile forza sotto un solo comando e degli intercorsi pericoli per questa adunanza, addusse le giuste aspettative del Papa e dell’assoluto dovere di loro stessi nel garantirgli una vittoria finale, e sottolineò cosa avrebbe significato mancare l’obiettivo… perciò, a monte di tutto questo, egli suggerì una pausa invernale, anche se questo significava dare al Turco la possibilità di rinforzare le sue forze e, all’indomani del nuovo anno condurre una campagna portando soccorso ai combattenti assediati di Cipro e liberare la piazza di Famagosta, oltre s'intende ad spugnare qualche castello in mano turca così come loro facevano seminando il terrore… piuttosto che rischiare il tutto in uno scontro frontale sul mare allo scoperto e dall’esito incerto e, peraltro, prossimi ad un stagione troppo avanzata e potenzialmente burrascosa.
Ammiraglio Gianandrea Doria Nella sala del convegno per qualche istante regnò il silenzio, un assoluto silenzio, ma ben presto, pian piano, da ogni angolo emersero i brusii sempre più irruenti di chi protestava e di chi era favorevole; un covolo di voci di volti sconvolti e di animi accesi dalle controversie. Don Giovanni, in tale contesto, batteva il pugno sul tavolo nel tentativo di tacitare i presenti e da cui, appariva quanto mai sconcertato e preoccupato per questa nuova ondata di incertezze. E ancora una volta, in quel tumulto, si alzò a parlare Marcantonio Colonna: “ Tutti qui hanno la libertà di parlare, ed è giusto. Ma oramai le decisioni sono prese, i patti firmati da quanti hanno aderito alla Lega lasciano soltanto a tre persone la facoltà di deliberare… all’Arciduca d’Austria che comanda tutte le forze della lega stessa, al duce di Venezia Sebastiano Venier e al sottoscritto generale dei romani. I patti dicono che bastano due di queste volontà concordi per obbligare anche la terza, e con essa l’obbedienza di tutta l’armata”. Dopo un primo silenzio una ovazione si levò nel convegno e gli applausi si accesero scroscianti e all’unisono travolgendo ogni esitazione e tutti proclamarono alla guerra. Una nuova esaltazione coinvolse tutti i presenti e le voci corsero lungo le rive allertando gli equipaggi e il fermento dei preparativi alitò sopra ogni cosa. Una stuoia di frati sbucò dal nulla e si distribuì fra le navi con l’intento di confessare e confortare gli uomini con la parola di Dio a sostegno di quello che avrebbero incontrato in battaglia. Il giorno 16 di Settembre Don Giovanni d’Austria convocò il primo vero consiglio di guerra, dove fu deciso l’ordine della partenza e la composizione che il convoglio doveva assumere in navigazione e, oltre a ciò, l’ordine che lo stesso doveva assumere per dare battaglia e il colore delle bandiere che avrebbe contraddistinto ogni fazione: il verde per Gianandrea Doria che comandava l’ala destra; l’azzurro per don Giovanni che si schierava al centro; il giallo per Agostino Barbarico che comandava l’ala sinistra e il bianco per il marchese Santacroce che comandava la riserva alle spalle dello schieramento centrale.
Agostino Barbarigo Ammiraglio comandante dell'Ala sinistra Quel medesimo giorno, una Domenica mattina, sotto il vento freddo di Grecale, il colossale convoglio prese finalmente il mare.
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