"U-boot" i battelli del mare sommerso a cura di Alessandro BELLOTTO
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La vita di bordo |
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E' indubbio in fatto che la vita a bordo di un U-boot non era cosa facile per nessuno, ufficiali e comandante compreso, gli spazi esigui dove l'intimità si riduceva a piccoli anfratti, poco illuminati e maleodoranti per le esalazioni della nafta e l'olio dei diesel, sempre sotto l'opalescenza della luce delle lampade elettriche che eliminavano ogni distinzione fra le ore del giorno e della notte; gli alloggi ricavati nello scompartimento di prora si articolavano in fra mezzo lo spazio destinato ai macchinari agli armamenti e un arsenale di siluri, dove il luogo fungeva anche da mensa e sala ritrovo; le cuccette erano addossate alle pareti il file da sei per lato ed erano usate alternativamente da tutti secondo il turno di riposo, all'incirca 25 uomini dovevano convivere in uno spazio appena sufficiente per meno della metà; i servizi igienici in genere erano due per tutti, ma in linea di massima ne veniva usato solamente uno perché l'altro fungeva come dispensa per le derrate alimentari. In quel ventre di Giona a volte faceva caldo a volte freddo e l'aria insalubre spesso si condensava nei tubi... e l'igiene, era semplicemente una cosa che non esisteva. Scherzosamente gli uomini solevano dire che la loro biancheria intima era di colore nero perché non sembrasse sporca, la chiamavano: biancheria da puttane. Quando tutto era tranquillo e se le condizioni del mare lo consentiva potevano lavarsi a turno con l'acqua di mare. A volte i minuti erano così lenti a passare che sembravano interminabili come le ore e i giorni. L'inerzia era micidiale e i pensieri andavano lontano e ammalavano l'animo. Quando si combatteva le cose andavano meglio, ognuno sapeva cosa doveva fare e l'occupazione teneva la mente lontana dai ricordi. Quando si montava di vedetta, nelle quattro ore che seguivano, quello era l'unico momento in cui si poteva respirare aria pulita e fresca , poi si tornava giù nell'inferno. Ma vi è anche un'altro aspetto sulla vita a bordo degli U-boot di cui non bisogna dimenticarsi, e che per la verità si manifestò assai di rado e che era dovuta alla lunga permanenza in mare o allo stress delle battaglie: la claustrofobia. A volte le missioni duravano mesi e negli equipaggi capitava di incontrare qualche segno di stanchezza e in taluni casi, segni evidenti di convulsione acuta e, per la verità, mai così gravi dal dover ricorrere a estremi rimedi o alla corte marziale. Lothar-Gùnther Bucheim era un fotografo imbarcato sull'U-96, con l'ordine di riprendere la rude vita degli eroi. Egli stesso, più tardi dopo la guerra, descriverà questi luoghi come lugubri e malsani ed è la stessa realtà che traspare dalle sue foto che era ben diversa dalle effimere realtà espresse nelle evocazioni adattate per il pubblico (vedi foto). La storia riportata attraverso le immagini del film (U-boot 96) del regista Wolfgang Petersen, il quale attraverso la sua pellicola ne rappresenta quasi una realtà abbastanza ben fatta, ne evidenzia per bene l'aspetto umano e la vita a bordo dei sommergibili durante la guerra. Quella storia rappresentata dalle straordinarie immagini opportunamente girate, è in parte vera e ne descrive una parentesi fra le tante della storia di quel sommergibile, anch'esso realmente esistito. Questo aspetto sulla disciplina e sulla dedizione di questi uomini è sempre stato un vanto ma a quale prezzo. I terribili mesi che erano costretti a passare in mare per le operazione di guerra non sarebbero state tali, se non fosse stato per lo spirito di adattamento degli equipaggi e per l'importante apporto ad essi dedicato da parte dei comandanti, alcuni dei quali, proprio per mantenere alto il morale, proponevano dei diversivi che, all'apparenza, potevano sembrare delle banalità ma nel profondo dell'oceano e/o nella promiscuità della vita di quella vita, assumevano un'importanza quasi vitale. Essi permettevano agli uomini di guardare attraverso il periscopio o di salire in plancia per osservare una balena che soffiava e per osservare i bagliori dell'aurora boreale. Oppure proponevano dei mini concorsi interni tipo gare di canto o di poesia, magari comiche. Altre volte venivano effettuati dei tornei di dama e/o di scacchi per i più emancipati nel gioco. I premi erano ambitissimi... per un meccanico veniva data la possibilità di un turno di guardia in plancia al timone per mantenere la rotta, mentre per un marinaio di coperta poter mettere in moto i motori diesel; a volte venivano organizzate delle mini conferenze sulla fauna marina o sulle correnti del golfo. Insomma. tutte cose che servivano a mantenere la mente lontana dai problemi quotidiani. Ogni equipaggio, alla fine, era come un nucleo familiare, specie verso la fine della guerra, allorquando i marinai andando in licenza scoprivano di non avere più la casa o che i loro famigliari erano morti o le fidanzate pure. Molto spesso accadeva che osservavano le rovina oramai disseminate ovunque, questi uomini rientrassero dai loro permessi ancor prima della scadenza, proprio per stare in compagnia dei loro commilitoni, come se quello oramai fosse l'unico mondo al quale appartenevano. Quella che in fondo non crollò mai fu la fede che essi avevano nelle loro possibilità e che risiedeva in fondo a loro animo, dove la morte appariva come una forza inevitabile e dalla quale era impossibile sottrarsi.
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