"La Serenissima Repubblica" a cura di Alessandro BELLOTTO |
pag. 9 di 23 |
|
L'arsenale marittimo |
||
Inutile negare che alla base della sua potenza, a Venezia, non c’erano solamente la politica e il commercio, pur se accompagnate dalla lungimiranza dei suoi capi e dalla intraprendenza dei suoi mercanti ma, prima fra tutte, vi era un’ istituzione di straordinaria importanza verso la quale, la serenissima, dedicò una particolare attenzione… “l’arsenale marittimo”. Dall’arabo “Dar as Saina” che significa “casa dell’operosità” questo istituto rappresentò sin dagli albori quanto di meglio ella potesse fare per la salvaguardia della sua flotta. O per fortuna o per lungimiranza, Venezia, comprese ben presto l’importanza di mantenere efficienti le sue navi mercantili ma, nello specifico, soprattutto delle navi da guerra, le famose galee, assolutamente indispensabili alla sua stessa difesa nonché per la salvaguardia dei suoi traffici marittimi. Ma la cosa interessante è che Venezia cercò di rendere questo insediamento produttivo, il più possibile adatto alle proprie esigenze, dalla costruzione alla manutenzione allo studio delle strutture e di tutto ciò che concernevano le specifiche necessità. L’arsenale venne realizzato nella parte orientale della città. All’inizio la sua estensione era di circa 3 ettari, ma ben presto negli anni successivi fu raddoppiata sino a raggiungere i 13 ettari, poi estesi a 24. Tuttavia l’opera di ampliamento e i miglioramenti continuarono senza sosta, furono trasformate le darsene all’aperto in capannoni in muratura, cosicché i lavori sulle navi potevano essere eseguiti al coperto e anche durante la stagione invernale, e non solo, fu anche aumentata la capacità dello specchio d'acqua al suo interno dove furono realizzati tre bacini di carenaggio, in fine, per proteggerlo da tutto e da sguardi indiscreti fu poi definitivamente fortificato da una cinta di mura alte e merlate, con due torri poste al suo ingresso e munito di un canale direttamente collegato alla laguna. Sul portale d’ingresso alla terra ferma vi era raffigurato il leone di San Marco simbolo della serenissima, ma in questa immagine esso viene raffigurato con una zampa posta sopra il libro chiuso a simboleggiare la sua aggressività combattiva. Solitamente la zampa è appoggiata sul libro aperto sulle parole: “Pax tibi Marce evangelista meus”.
Le due torri all'entrata dell'arsenale Negli anni la sua operosità è andata sempre più migliorando al punto che nel XV° secolo le manovalanze, ovvero gli arsenalotti avevano raggiunto un insieme di 2.000 unità, ed erano in grado di produrre sino a 80 galee contemporaneamente e al coperto, e ancora salì sino a raggiungere le 116 unità. Un vero record. L’amministrazione di questo grande complesso marittimo era sorretta da un gruppo consiglieri denominato: “eccellentissimabanca” il quale era composto da tre senatori o provveditori dell’arsenale, e da tre patroni membri del "Maggior Consiglio", che erano dei patrizi di comprovata esperienza. Questo incarico era elettivo e aveva la durata di tre anni e comportava delle precise responsabilità: ogni tre giorni dovevano far visita in arsenale e ispezionare le navi, specie quelle di ritorno da ogni viaggio e redigere ogni tre mesi una relazione sullo stato di ciascuna di esse ed inoltre, due volte l’anno, dovevano personalmente sovrintendere al controllo di tutte le attrezzature e gli armamenti di bordo. La parte tecnica invece era affidata ad un magnifico ammiraglio, che era a capo dell’arsenale e che a sua volta si serviva dei suoi protomagistri, dai cui ranghi proveniva egli stesso e, nonostante le origini plebee, questi godeva di un prestigio al pari dei patrizi. I protomagistri provvedevano ad una razionale organizzazione del lavoro che era suddiviso per categorie, la prima delle quali comprendeva i marangoni, seguiti dai cordai, dai remieri, dai calafati, tutte assistite dai bastasi, cioè gli addetti ai trasporti interni. Insomma, era una sorta di cittadella autosufficiente e ben organizzata. I maestri d’ascia, che facevano parte dei marangoni (i falegnami), erano coloro che si tramandavano di padre in figlio tutti i segreti sulla costruzione di una nave, essi infatti si occupavano di disegnare le linee d’acqua determinando le proporzioni degli scafi e sceglievano il legname più adatto per costruire i vari componenti della nave. Questo sistema col tempo finì per costituire delle caste interne, una delle più note era la famiglia dei Bressan. A tal proposito vale anche la pena di accennare ad un altro famoso carpentiere, un certo Teodoro Baxon, in quanto alla sua morte, non avendo costui figli, e poiché non aveva lasciato nulla di scritto sui modi di lavorazione, l’arsenale conservò alcune delle sue galee come modelli per le successive navi da costruire. Tutti i materiali all’interno dell’arsenale venivano accuratamente controllati e catalogati, come ad esempio: nella “tana del canevo” era un locale lungo 315 mt. dove i cordai fabbricavano i vari tipi di funi e le minutante necessarie alle manovre, adoperando le migliori fibre di canapa. I rocchetti e i filatori erano marcati in modo tale che si potesse individuare ogni singolo prodotto e da chi era costruito. La medesima cosa avveniva per il legname: la quercia bianca proveniva dall’entro terra e normalmente veniva impiegata per costruire il fasciame, mentre la quercia più dura detta, quercia rossa, era impiegata per le costole e la chiglia; il legno di olmo per gli argani proveniva dall’Istria, il larice per gli eventuali rinforzi e angolari proveniva dalle Prealpi; gli abeti per gli alberi dall’alto piano di Asiago, mentre il faggio per i remi proveniva dalla Croazia. Per di più bisogna considerare che i veneziani usavano immergere il legno di quercia in acqua salata per aumentarne la durezza. A detta dei genovesi, grandi rivali di Venezia, le migliori costruzioni sia per la qualità del legni sia per la tecnica usata, erano senza alcun dubbio quelle prodotte nell’arsenale dai veneziani. All’epoca non esistevano navi migliori di queste che solcassero i mari. Un’altra zona altrettanto importante dell’arsenale e la più pericolosa, non a caso infatti fu realizzata nella parte più a nord dello stabilimento, era la fabbrica delle armi e munizioni. Qui trovavano il loro collocamento i fonditori di bronzo e di ferro, gli spadari, gli armorari (costruttori di armature) e i miscelatori di polveri da sparo, abilissimi artigiani che sapevano mettere in agio sempre nuovi distruttivi marchingegni. Purtroppo in questo sito, di tanto in tanto, scoppiava qualcosa e gli incidenti, gravissimi, avevano delle conseguenze altrettanto devastanti, nonostante che tutto si svolgesse con mille attenzioni. Ragion per cui, onde prevenire potenziali focolai e/o pericolosi inneschi, vi era una norma sancita da una legge dello stato e che veniva scrupolosamente osservata, che proibiva di condurre in arsenale dei cavalli ferrati. Negli annali storici dell’arsenale sono riportati dei dati relativi alla rapidità con cui veniva costruita e allestita una galea… è stato calcolato infatti che 32 segatori, 96 marangoni e 96 calafati, potevano costruire 20 galee in sei mesi. In linea di massima gli scafi costruiti non erano subito allestiti ma venivano riposti nei bacini di carenaggio, dove potevano essere successivamente ripresi e allestiti. Un’altra caratteristiche di queste costruzioni consisteva nel fatto che molti componenti erano intercambiabili e, a ragion veduta, questo costituiva un ottimo deterrente in caso di impellenti necessità. Di fatto, tutti questi componenti potevano essere assemblati con una rapidità eccezionale, poiché erano stati preventivamente numerati e conservati in magazzino perciò, allo stesso modo, potevano essere recuperati con altrettanta rapidità. Nel breve lasso di tempo che poteva oscillare dalle 3 alle 9 ore, potevano essere assemblate 10 gelee, ciò significava che venivano installati 500 banchi e 500 pedane per i vogatori, 1500 remi posizionati sugli appositi scalmi, e così 10 vele, 10 alberi, 10 timoni, 20 aste per le antenne, il sartiame, le manovre e le armi e tutte le finiture compresa la bitumazione. Questa era una vera forza che simboleggiava una potente macchina da guerra. E questa potente macchina era in connubio con la propria città, quale parte integrante del sistema. Una nota a carico degli arsenalotti, non a caso, evidenziava il fatto che la salvaguardia e l’incolumità del Doge era devoluta proprio ad essi, e questi la assolvevano con volontà e orgoglio. Allo stesso tempo però c’è da dire che questa manovalanza, definita della bassa plebe, pur avendo passione e dedizione per il proprio lavoro, nel contempo, poteva anche diventare potenzialmente pericolosa nei confronti di coloro che non gli dimostravano la loro sensibilità, specie quando le paghe arrivavano in ritardo. Oltre tutto lavorare in arsenale voleva dire essere soggetti a regole molto rigide, ad esempio: quando uscivano dallo stabilimento dovevano avere la giacca appoggiata su una spalla, in modo da non potervi nascondere nulla. L’eventuale pena corporale che veniva inflitta a chi rubava chiodi, consisteva nel fatto di essere staffilato mentre correva per tutto l’arsenale con gli stessi chiodi appesi al collo. Un’altra categoria che, volente o nolente, faceva parte degli armamenti delle galee erano i rematori… questa la si poteva benissimo definire un’arte molto faticosa. Il manovrare i remi a bordo delle galee non era cosa facile, oltre che faticosa, questa richiedeva tempismo e molto dispendio di energie, ragion per cui, solo gli uomini dotati di un buon fisico potevano assolvere a questa attività. Nel XV° secolo nel bacino del Mediterraneo, di gran lunga, nelle galee si vogava a scaloccio, ovvero: gli uomini di uno stesso banco lavoravano allo stesso remo; mentre i veneziani vogavano alla sensile, ovvero: ogni uomo dello stesso banco vogava con un proprio remo. Ogni remo era lungo dai 9 ai 10 mt. e pesava circa 55 Kg. e brandirlo a dovere in uno spazio ristretto non era una cosa così facile.
voga a sensile Ogni remo poggiava nello scalmo a circa i 2/3 della sua lunghezza, per renderlo più agevole all’uso venivano anche inseriti dei pesi di piombo in prossimità dell’impugnatura. Comunque rimaneva pur sempre un mestiere estremamente faticoso ed era considerato di terz’ordine e la paga era piuttosto magra, appena 52 piccioli al giorno, circa ¼ della retribuzione di un arsenalotto non qualificato. Sino al XVI° secolo questi forzuti rematori erano di norma tutti mercenari stranieri e/o semmai in caso di estremo bisogno dei coscritti veneziani. A quei tempi a bordo di una galea, marinai soldati e rematori, erano in qualche modo legati alla medesima esperienza e abilità, ragion per cui, il capitano poteva impiegarli in alternanza, ma con l’evento delle modernizzazioni e delle tecniche di combattimento, la figura del soldato, dell’archibugiere o del balestriere cominciarono ad assumere un ruolo sempre più marcato e ben specifico, che relegò il vogatore all’ultimo posto, declassandolo a bassa forza. Questa perdita di prestigio nei confronti dei colleghi imbarcati provocò nei veneziani un certo rifiuto a intraprendere questo lavoro anzi, si dimostrarono sempre più restii e se coscritti, cominciarono a disertare. Una concausa per tale diniego derivava anche da un altro fattore di non poco conto… la qualità del cibo. Quando le defezioni cominciarono a assumere livelli preoccupanti, lo stato cominciò a colmare i posti vacanti impiegando i prigionieri commutando loro la pena. Due anni di servizio alle galee corrispondeva a cinque anni di prigionia. Molti dei rematori presenti a bordo, per altro volontari, nonostante la durezza e la disciplina altrettanto ferrea, erano coloro che avevano contratto debiti di gioco, vagabondi e altri loschi individui che vendevano se stessi per una manciata di soldi o per procurarsi da bere. Tutti questi venivano quindi ingaggiati e a tutti veniva rasata la testa e quando dovevano scendere a terra per qualche servizio, venivano incatenati e scortati. Insomma il mestiere di vogatore si era tradotto in una sorta di vita miserabile e da miserabili venivano trattati, e le colpe commesse di certo venivano espiate con altrettanta durezza. L’unica alternativa era rimanere tranquilli e godere quel poco di libertà concessa a bordo, altrimenti le punizioni corporali non tardavano ad arrivare e, di norma, erano delle sonore frustate. Fin quando potevano resistere, uno dei momenti più appaganti di cui potevano godere, erano i pasti: formaggio, fagioli, un po’ di maiale salato e vino, per altro, la speranza di poter un giorno porre fine a quella vita così ingiuriosa e tanto bestiale. Tanto per la cronaca, una galea poteva raggiungere, con gli opportuni cambi, un’andatura media di crociera di 3 nodi e la ciurma poteva mantenere questo ritmo di voga per un giorno intero, in caso di battaglia o di qualsiasi altra necessità, la nave poteva essere spinta sino a 7 – 9 nodi, con 26 battute al minuto, solo che non poteva essere mantenuta per più di 20 minuti al massimo. Quando il vento lo consentiva, la sola vela latina sospingeva la galea sino a raggiungere anche i 12 nodi. Per concludere… questi disgraziati, erano la forza motrice che faceva navigare il baluardo della potente cristianità, contro le minacce dell’impero Ottomano che si stava affacciando nei bacini del Mediterraneo.
|