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Autore Alessandro F. Kineith |
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Alessandro F. Kineith
“Bagliori all'orizzonte”
Romanzo avventure sul mare Edizione 2010
Prefazione
La guerra Anglo-americana del 1812 A quell’epoca, il colonialismo nell’America del Nord-Est era ancora in espansione, di conseguenza, anche la frontiera era in continuo movimento, una sorta di linea mobile che si spostava verso Ovest al passo con la colonizzazione stessa. Questa naturale caratteristica rappresentò l’apogeo delle genti che contribuirono allo sviluppo e al successivo concretizzarsi della storia americana. Ovviamente, questi continui flussi di popolazioni provenienti dalla vecchia Europa, portarono i più temerari a inoltrarsi ben al di là dei monti Appalachi, dove il territorio era piuttosto selvaggio e di non facile accesso, soprattutto per via dei nativi, gli indiani d’America, popolo fiero e selvaggio che oramai aveva intuito che quella gente non si limitava solamente a transitare, come all’inizio era stato detto loro, ma si adoperava bensì per creare sempre nuovi insediamenti; per di più, oltre alle normali orde di colonizzatori, già da tempo nel territorio di frontiera si erano acquartierati i primi latifondisti, per lo più ex funzionari inglesi, che a spese degli indiani cercavano di impadronirsi di quei territori dove il commercio delle pelli era un affare lucroso e così, per queste ragioni, costoro si erano asserragliati lungo il confine Canadese, nella regione ancora non ben definita dell’Indiana, allora considerata come una zona cuscinetto tra il Canada coloniale e il territorio americano. A lungo andare però, la situazione si faceva sempre più tesa, al punto che questi signori videro minacciati i loro traffici, ragion per cui, col pretesto di scacciare i coloni cercarono di convincere gli indiani a scendere sul sentiero di guerra, promettendo loro viveri, coperte e perché no: whisky a volontà. Costoro si mossero con estrema cautela, anche se in questo progetto erano segretamente sostenuti dalle Autorità Inglesi, che speravano di fiaccare l’espansione degli stessi Yankee di frontiera, che a loro volta cercavano in tutti i modi di impadronirsi dei territori di caccia indiani spingendosi sempre più verso Nord, forti anche del trattato di Fort Wayne, sottoscritto da una minoranza indiana nel 1809 e senza l’approvazione unanime di tutte le tribù. Così, latifondisti e governativi inglesi, cercarono in tutti i modi di coinvolgere gli indiani capeggiati da Tecumseh, un capo indiano della tribù shawnee, procurando segretamente armi ai selvaggi e insegnando loro ad usarle, affinché si coalizzassero tra loro ed effettuassero delle scorribande, seminando scompiglio e paura tra coloro che si avventuravano nel territorio. Ne conseguì una sorta di guerriglia che alla fine si tradusse in uno scontro diretto con gli Stati Uniti accorsi in aiuto dei coloni e che sfociò nella famosa battaglia di Tippecanoe, proprio alla confluenza del fiume omonimo col fiume Wabasch, nella Wabasch Valley, dove la mattina del 7 Novembre del 1811 ebbe luogo lo scontro fra le tribù indiane coalizzate dal grande capo Tecumseh e l’esercito statunitense comandato dal Generale Williams Henry Harrison, che diver-rà più tardi il nono Presidente degli Stati Americani. Fu una battaglia cruenta, sanguinosa, e, nonostante gli indiani fossero provvisti anche di cannoni, vennero ugualmente sconfitti dalle truppe regolari e dalla milizia locale, molto più addestrate e disciplinate. Nel gran disordine che ne seguì, gli indiani non si fecero scrupoli e abbandonarono sul campo molti fucili e i cannoni, che risultarono poi di fabbricazione inglese. Questa scoperta fece traboccare il vaso della tolleranza e finì con l’alimentare tra le popolazioni locali, una vera e propria “anglofobia” inoltre, molti senatori dell’Ovest, americano confidavano sul fatto che gli Inglesi fossero troppo occupati nella guerra contro Napoleone e perciò, confidando che non fossero in grado di proteggere adeguatamente la frontiera canadese, a loro volta, speravano di sottrarre dei territori nella zona dei grandi laghi. Ma oltre alle vicende sul fronte della coloniz-zazione, ciò che destava maggior preoccupazione, era quello che accadeva sul fronte degli interscambi commerciali via mare, dove le cose non andavano meglio e che oramai era sotto gli occhi di tutti. Dopo la guerra di indipendenza infatti, col trattato firmato a Parigi il 3 Settembre 1783, il governo inglese riconobbe la nascita degli Stati Uniti d’America, la cui sovranità si estendeva sui territori dalla costa atlantica al Mississippi e dal Canada (britannico) alla Florida (spagnola). Tuttavia, molti degli accordi sanciti nel trattato rimasero come lettera morta, poiché la Royal Navy cominciò a boicottare tutte le navi mercantili che battevano bandiera americana, con il mero pretesto di arruolare sotto le proprie insegne, tutti i cittadini di origine inglese nati prima della data di indipendenza che si trovavano ad operare a bordo delle navi e/o in quelle dei paesi che commerciavano con gli stati delle tredici colonie, e, all’occorrenza, per sequestrare qualsiasi mercanzia ritenuta di contrabbando. Il governo inglese, basava questa politica sulla supremazia marinara che la Royal Navy aveva acquisito con le sue vittorie in Europa e che l’aveva resa padrona incontrastata dei mari. Tale supremazia però, con l’andare del tempo, la rese una forza navale troppo prepotente poiché, da parte inglese, siffatto principio si basava sul punto di vista chiaramente espresso da Lord Stowell, il quale dichiarò senza indugio che: “… il diritto marittimo si basava sul principio fondamentale secondo cui, in alto mare, le navi non fanno parte del territorio sovrano del paese al quale appartengono.” Da ciò si evince, che gli Inglesi non avrebbero mai desistito dalla loro politica. Ora: le continue molestie che i mercanti della costa erano cos-tretti a subire, unite ai continui blocchi e alle restrizioni pretestuose che ne limitavano il libero commercio, cominciarono ad alimentare la rab-bia, ed una certa animosità si insinuò nell’animo di molti americani, risultando sempre più incontenibile e che, sommata ai recenti fatti suc-cessi nel territorio del Nord-Ovest, contribuirono a far traboccare il vaso della pazienza. Ad ogni buon conto, bisogna osservare che la politica degli stati d’America a quell’epoca, non era allineata su di un unico fronte anzi, era piuttosto controversa, poiché vi erano regioni con interessi contrastanti, come il New England, dove alcuni membri del Congresso e i federalisti, sostenevano che una guerra li avrebbe danneggiati economi-camente, poiché sarebbe venuta a mancare loro la sussistenza via mare, e, come se non bastasse, essi accusavano il Presidente Madison di voler trascinare il paese in una guerra che sarebbe stata poco utile e molto costosa. Di contro, i repubblicani erano favorevoli ad una rivalsa nei confronti degli inglesi, affinché la smettessero di alitare sulle loro spalle. Il fatto era che l’Inghilterra, proprio in quel periodo, era in guerra contro la Francia di Napoleone e necessitava di uomini da impiegare a bordo delle proprie navi da guerra. Ed era proprio questo il punto più controverso. Questa faccenda degli arruolamenti forzati, finì col convincere il Presidente Madison, che questa poteva essere la chiave di volta per rafforzare l’America. Questa "seconda guerra d’indipen-denza" per quanto controversa, dimostre-rà l’assoluta volontà di una Nazione ad affer-marsi sul teatro internazionale e sarà anche l’ispiratrice dell’inno nazionale americano. Nonostante l’esercito fosse mal disposto e mal governato, attraverso fasi alterne, i suoi combat-tenti riuscirono per fortuna o per ardimento, a contrastare l’esercito britannico, considerato il più potente e ben addestrato del mondo. La medesima cosa valse per la Marina da Guerra americana, più efficiente ma ridottissima come numero di unità, ma grazie alla quale e all’eroi-smo dei suoi ufficiali e marinai, riuscì a ottenere le prime vere vittorie su una potenza di gran lunga superiore come grandezza e capacità combattiva. Questa guerra quasi malvoluta, proiettò l’America verso una maggior consapevolezza, nonostante vi fosse stata una faziosa congrega di politici federalisti che per salvaguardare i propri interessi, si riunì ad Hartford nel New England, con l’intento di promuoverne il secessionismo e in tal senso, presero contatti con degli agenti Britannici. Frattanto, sul fronte delle ostilità, dopo un primo successo ottenuto dagli Inglesi che incendiarono Washington, più che altro per vendicare la sortita fatta preceden-temente dagli americani nell’Ontario… a causa degli embarghi contro Spagna e Francia e la guerra contro l’America via mare, la Gran Bretagna si ritrovò con le finanze assottigliate e questo, inevitabilmente, la indusse a firmare il trattato di pace con gli Stati d’America. Trattato che venne firmato il 24 Dicembre del 1814 nella cittadina di Ghent nel Belgio settentrionale. Tuttavia, data la lentezza nelle comunicazioni, la notizia impiegherà circa venti giorni prima di raggiungere l’America, nel frattempo, l’8 Gennaio del 1815 fu combattuta l’ultima e decisiva battaglia in difesa di New Orleans, dove il Generale Jackson infliggerà agli inglesi un’ultima clamorosa sconfitta che, assieme alla precedente vittoria ottenuta dalle milizie di Baltimora, segnerà la fine del sogno inglese di riprendersi le terre delle antiche colonie. Tutto questo segnerà anche la fine del sogno secessionista e quei signori, pagarono a caro prezzo tale avversità, poiché furono etichettati come traditori e moral-mente additati con altrettanto disprezzo. L’America scoprirà un nuovo fervore naziona-istico che ne consoliderà una Costituzione Repubblicana. La rispettabilità e l’onore di una Nazione si basano su dei principi e ideali assoluti e inalienabili secondo cui, l’uomo, posto al centro dell’Universo, senza quelle priorità non può fondare le sue radici, ed è come se non avesse un’identità vera. La lungimiranza di Madison e la tenacia combattiva di Jefferson, come quella di molti altri, unita all’eroismo e all’abnegazione di quindicimila tra uomini e donne, mezzi indiani, pionieri, contadini, mezzo sangue, uomini di colore, intellettuali, soldati e marinai, portarono l’America verso un futuro più radioso e coeso come lo era stato sin dai tempi della prima rivoluzione. Ed ecco, tra storia e fantasia, la descrizione di alcune tra le più clamorose battaglie che si sono svolte sul fronte del vasto oceano.
Capitolo primo Boston 1812 Timoty Bolton scese con cautela la scala oramai consunta che ad ogni passo scricchiolava rumorosamente sotto il peso della sua abbondante stazza; ed ogni volta che scendeva dalla sommità del soppalco dov’era relegato il suo ufficio sino al pian terreno, contava mentalmente i gradini... ben quattordici, compreso l’ultimo naturalmente. Dopo quella volta che distrattamente era inciampato cadendo rovinosamente giù a fondo scala, slogandosi la caviglia destra più contusioni varie, aveva preso questa abitudine. Quella volta il Dr. Patrick ebbe il suo bel daffare, nel costringere Timoty a star seduto su una comoda poltrona con la gamba appoggiata sopra uno sgabello, affinché non si gonfiasse come una zampogna o più di quanto non lo era di già. Timoty non era certo il tipo d’uomo che se ne stava seduto tranquillamente a poltrire, tutt’altro, e così in quei giorni di forzato riposo era divenuto il tormento di tutti coloro che gli orbitavano attorno. La moglie Elvira, che ad ogni sussulto di voce si precipitava al suo cospetto e i due figlioli: Paul ancora dodicenne e Tom, che oramai si faceva la barba da un bel po’ di anni e che aveva imparato a non ascoltare più di tanto quel vecchio brontolone di suo padre, quando sparava sentenze a destra e a manca. Timoty, quel mattino di buonora si incamminò adagio tra gli scaffali ricolmi di mercanzie di vario genere sistemati a ridosso del muro sul lato sinistro e i sacchi di grano accatastati dall’altra parte; oltrepassò alcune ceste ricolme di patate ed altri numerosi barilotti ancora sigillati di aringhe sotto sale depositati a terra e si diresse verso il fondo del magazzino. Si accostò ad un piccolo tavolo sopra il quale era posto un lume a petrolio e lo accese, poi con fare quasi guardingo, prese dalla tasca destra dei pantaloni una grossa chiave e la infilò nella toppa della serratura, girò alcune mandate e aprì la porticina che dava nella cantina sottostante e si addentrò nel seminterrato buio, richiudendo la porta alle spalle. Là sotto, Timoty vi teneva le botti di vino, quello buono per intenderci; frutto di un paziente lavoro di pigiatura di uve selezionate dal suo amico Rolando, un contadino di origini italiane di poche parole, ma dotato di grande talento come vignaiolo. Giù in fondo alla cala semibuia, sopra una mensola posta sul lato sinistro, lontana da sguardi indiscreti, erano allineate le fiaschette di whisky. Timoty ne prese una e riuscì alla luce del giorno. Quel mattino si presentava piuttosto grigio e così, Bolton, pensò che qualche sorso di quel nettare non gli avrebbe fatto che bene anzi, avrebbe contribuito a sollevargli il morale. Ripose il lume sopra il tavolo lo spense, richiuse la porta a più mandate, rimise la chiave in tasca e ritornò sui suoi passi, prese la borsa di cuoio con gli incartamenti che in precedenza aveva appoggiata accanto ad una ruota del primo carro e salì a cassetta, bevve un sorso appoggiando la boccia sulla spalla destra tenendo la testa inclinata da un lato, poi richiuse accuratamente il tappo e la depose nell’apposito incavo alla sua destra, prese le redini in mano e intimò ai muli di muoversi. “Hioù… forza belli, andiamo.” Il carro si mosse piano seguito dagli altri tre, rispettivamente guidati da Tom e dai due uomini di fatica, Murdoc e Murrey, che già da tempo lavoravano per i magazzini Bolton. Il convoglio si avviò lentamente lungo il sentiero e uscì dalla proprietà varcando il cancello già spalancato; veramente questo era sempre spalancato, tanto la tenuta era senza recinzione, perciò a cosa sarebbe servito chiuderlo? A pensarci bene, chiunque avrebbe potuto avvicinarsi alla casa o ai magazzini; l’unico ostacolo era rappresentato da due grossi alani, simili a dei cavalli, che erano liberi di scorazzare nella piccola tenuta. Da quando il Congresso nel Luglio del 1797 aveva deliberato la nascita del Dipartimento della Marina da Guerra, nelle periferie della città più importanti delle tredici Colonie che si affacciavano sull’Atlantico, come Boston, Baltimora, New York e tante altre, erano sorti i Comitati Governativi per i rifornimenti navali e Bolton, per l’appunto, faceva parte di uno di questi perciò, ogni qual volta riforniva qualche nave per conto del Dipartimento, inviava nella capitale i resoconti ben dettagliati delle derrate che consegnava a bordo, cosicché il signor Delano Opkins, il contabile preposto alla visone dei conti, ne controllava l’autenticità e provvedeva a saldare le fatture ai vari fornitori. “Hioù… forza belli, vai Jim, tira bello, tira.” Bolton era un uomo molto preciso e quando diceva che il tal giorno sarebbe arrivato coi rifornimenti, lui sarebbe arrivato. Così in quell’alba grigia che prometteva pioggia, egli stava dirigendo i suoi carri per raggiungere il pontile riservato alle navi da guerra, dove ad attenderlo vi era la United States, una magnifica Fregata da 44 cannoni che di lì a pochi giorni sarebbe salpata per l’Atlantico. Giunse in città mentre questa era ancora addormentata. Per la via incontrarono solo pochi frettolosi passanti e un ubriaco, che si era addormentato a ridosso di un mucchio di cassette vuote accatastate lungo il ciglio della strada; costui teneva una mano sotto la testa e con l’altra brandiva ancora il corpo del reato, ovviamente vuoto, appoggiato sopra il petto. Era ancora troppo presto, così Bolton fermò i carri davanti alla taverna del cormorano rosso, scese dal carro portando con sé la borsa di cuoio dei documenti, poi si volse verso il figlio facendogli un cenno col capo ed entrò nel locale semibuio e vuoto. Era ancora presto perché qualche avventore fosse già alle prese con una pinta di rum o di birra. Sedettero ad un tavolo d’angolo e attesero che qualcuno si facesse vivo. “Ehi Timoty” lo apostrofò Clodilde appena lo vide, “qual buon vento ti porta in città a quest’ora del mattino?” “Oh…” esclamò questi, “sono qui per gli approvvigionamenti delle navi.” “Ah già!” Esclamò la donna guardando oltre la finestra, “ieri nel primo pomeriggio ha attraccato la United States, dicono che a bordo ci sia il Comandante Decatur, l’eroe del Mediterraneo.” A Bolton poco importava chi egli fosse, quello che maggiormente lo interessava, era di scaricare la merce e farsi firmare le bolle, ovviamente, nel più breve tempo possibile, così poteva ritornare ad occuparsi dei suoi affari. Ordinò per sé e per Tom delle uova al tegame con pancetta fritta e due tazze di caffè d’orzo. “Allora, Tom, quand’è che ti mariti?” Esclamò Clotilde rivolta al giovane Bolton oramai già sulla trentina. “La tua Emma sarà stufa di aspettare.” “E aspetterà ancora” sbottò il vecchio Bolton, “questi sono tempi duri per metter su famiglia, adesso non è ora.” “Si, a sentir lui non è mai il tempo giusto” esclamò a sua volta Tom guardando l’anziana donna ferma lì davanti. Timoty non aggiunse altro alla conversazione e appena la locandiera gli porse il tegame fumante, si accinse a mangiare sollecitando il figlio di fare altrettanto e finché non ebbe finito, non disse più una parola, dopodiché, pagò il conto e uscì frettolosamente dal locale seguito dal figlio. Risalì a cassetta e diresse il piccolo convoglio col prezioso carico verso il molo e si fermò sottobordo alla Fregata. “Ehilà della nave” esclamò a gran voce.
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